Oltre la sostenibilità: perché il futuro si chiama governo degli impatti
9 Dicembre 2025
A cura di Chiara Volpato – Partner Adacta Tax e Legal, Corporate Compliance and Sustainability Leader
La doppia materialità sta ridisegnando il modo in cui le imprese comprendono se stesse e il proprio ruolo nel mondo. Non è un nuovo slogan, né un aggiornamento cosmetico dei report ESG: è un cambio di postura. Alla tradizionale domanda in che modo prodotti, processi e decisioni generano impatti su persone, territori ed ecosistemi (materialità d’impatto) si affianca quella speculare e spesso più complessa su come i fattori ambientali, sociali e di governance influenzino risultati, margini e costo del capitale (materialità finanziaria).
L’analisi di doppia materialità consente di rappresentare il duplice legame tra impatti generati dall’impresa (inside-out) e rischi o opportunità che tali impatti producono sul suo valore economico (outside-in). In questa prospettiva, la materialità non è più un esercizio statico di compliance, ma un processo dinamico di valutazione strategica.
Questo assetto, in luogo della “classica” valutazione della materialità d’impatto, storicamente propria ad esempio dei principi GRI, è stata una delle principali novità introdotte dalla Direttiva (UE) 2022/2464, la famosa “Direttiva sulla rendicontazione di sostenibilità” ovvero la c.d. CSRD. La critica più frequente? Il rischio di burocratizzare il nuovo approccio alla sostenibilità, soffocando un potenziale elemento strutturale della strategia aziendale dietro una cornice di compliance formale e check-list interminabili. È un rischio reale.
Un rischio inevitabile a fronte di un obbligo cogente di rendicontazione e di una minuziosa disciplina contenuta nella CSRD e soprattutto nei principi trasversali ESRS 1 e 2: disciplina difficilmente gestibile anche dalle imprese più grandi e strutturate data l’ampiezza del campo di analisi e il suo dettaglio (si pensi ai «sotto-sottotemi» dei macro obiettivi di sostenibilità europei da valutare), l’incertezza sui criteri di esclusione o limitazione della rilevanza del tema ESG, le considerevoli difficoltà di reperimento e affidabilità del dato, sia della stessa società rendicontante che nella sua catena del valore, ecc. Se questo è vero per strutturate imprese multinazionali, ciò è a maggior ragione vero anche nel caso delle imprese che adottano volontariamente degli standard di rendicontazione di sostenibilità.
Orbene, l’essenza della doppia materialità non è un minuzioso inventario delle esternalità attuali o potenziali dell’attività di una società ovvero dei potenziali effetti dell’ambiente esterno sull’impresa, bensì la capacità di selezionare ciò che conta per davvero: quali sono i temi che influenzano il valore nel tempo degli asset materiali e immateriali dell’azienda e gli impatti che l’attività d’impresa genera e possono avere ricadute positive o negative? In quest’ottica, la doppia materialità diventa un ponte tra operatività e strategia: mette in relazione dati e decisioni, consente scenari, priorità e trade-off espliciti, supera griglie formali e distribuisce responsabilità lungo la catena del valore.
Nelle prime esperienze svolte con diverse imprese dei nostri territori emergono tre lezioni pratiche.
La prima è metodologica: è necessario lasciare da parte il formalismo e adottare un approccio sincretico e olistico per costruire il modello della società nel contesto ambientale, sociale e di governance concreto. L’impresa deve innanzitutto costruire una panoramica chiara del proprio ecosistema operativo: le attività svolte, le relazioni d’affari dirette e indirette, la struttura della catena del valore e il contesto socioeconomico e normativo in cui opera. È in questa fase che si effettua anche la mappatura preliminare degli stakeholder rilevanti, intesi come soggetti che possono essere influenzati o influenzare, direttamente o indirettamente, le attività dell’impresa.
Ma se questo è l’obiettivo, chiediamoci se è raggiungibile tramite un lungo elenco di tematiche di sostenibilità “da spuntare” e valutare più o meno quantitativamente sulla base di interviste al management e ai dipendenti o dei sinistri registrati nel corso dell’esercizio o di questionari e form online inviati a clienti e fornitori? Nella nostra esperienza questo formalismo è inefficace: per una media impresa, banalmente, i buoni rapporti con i clienti ma anche con molti fornitori semplicemente non consentono di ricevere un numero adeguato di risposte e, soprattutto, di risposte caratterizzate da un adeguato sostegno argomentativo o affidabilità del dato di ritorno. Risposte standard, frettolose o semplici punteggi su scala da 1 a 5 molto semplicemente non aggiungono alcuna informazione utile alla strategia aziendale. Al contrario: rischiano di compromettere il risultato finale e, in tal caso, il dispiegamento di risorse e tempo in quest’attività costituisce di per sé una inefficienza.
A nostro avviso quello che funziona, invece, è in primo luogo la valorizzazione del patrimonio informativo aziendale; l’individuazione di pratiche e progetti già presenti nell’impresa ma non monitorati dalla direzione o sistematicamente inseriti nel contesto aziendale; la selezione di un limitato nucleo di partner commerciali diretti, magari già coinvolti nel processo ESG perché essi stessi hanno cercato di ricevere informazioni di sostenibilità dalla nostra impresa; ecc.
Una prima analisi “introspettiva” del genere consente di coinvolgere i responsabili interni attorno a un nucleo di temi rilevanti che possono poi essere sviluppati e sistematizzati con esperti qualificati esterni. Un esempio fondamentale di valorizzazione del patrimonio informativo aziendale riguarda i sistemi di gestione interni, spesso certificati, ad esempio in materia ambientale (ISO 14001 o EMAS), di qualità (ISO 9001) o di sicurezza (SA8000). In questi casi, l’impresa ha già svolto una approfondita analisi di contesto e di impatto, per quanto settoriale e parziale, quasi sempre con l’accompagnamento di un esperto esterno, e introdotto dei presidi di gestione e controllo secondo l’approccio plan-do-check-act. Sono analisi che forniscono alla valutazione di doppia materialità una base argomentata e puntuale degli impatti e spesso degli indicatori di performance; in secondo luogo, ignorare queste analisi da un punto di vista della rilevanza di impatto e finanziaria costituirebbe una contraddizione interna all’azienda e alla sua strategia.
Ancora, senza uscire dai confini aziendali è fondamentale il coinvolgimento del personale e la valorizzazione degli eventi registrati nel corso dell’esercizio: interviste brevi, workshop mirati, evidenze da audit e reclami, ecc.
Anche dai lavori in corso in sede europea sulla riforma della CSRD e degli ESRS, questo approccio c.d. top-down sta acquisendo sempre più rilevanza, anche in un’ottica di pragmatismo ed efficienza.
La seconda lezione riguarda i dati: pochi ma buoni, e possibilmente inseriti in un flusso informativo definito e imputabile a figure aziendali ben individuate. D’altra parte, anche gli appena citati lavori nell’ambito del “pacchetto Omnibus” sembrano essere giunti a una riduzione di oltre la metà del dataset ESRS secondo la stessa EFRAG. Cosa vuol dire?
Significa che la stessa Commissione Europea ha riconosciuto un principio chiave: l’efficacia non risiede nel volume dei dati, ma nella loro rilevanza strategica. Resistere alla “bulimia di indicatori” è il primo passo per un’analisi di materialità efficace.
Per una PMI, peraltro, questo principio non è una semplificazione, ma un atto di sopravvivenza organizzativa. Queste imprese, infatti, non dispongono di strutture di reporting complesse, né di uffici ESG autonomi; spesso il dato è “disperso” tra reparti — qualità, sicurezza, ambiente, amministrazione — senza una cabina di regia che ne assicuri coerenza. È quindi essenziale che la raccolta dati avvenga a monte, incorporata nei processi gestionali e contabili ordinari: le ore di formazione, gli audit di sicurezza, i consumi energetici, le segnalazioni di reclami o near miss devono confluire in un flusso informativo stabile, non episodico, ed essere integrati negli strumenti a disposizione.
I dati devono avere tre caratteristiche:
1. Essere decisionali. Non si raccoglie un dato per “riempire il report”, ma perché abilita una scelta. Il dato sul consumo energetico per unità prodotta non è un esercizio statistico; è l’input per una decisione di investimento su un impianto di autoproduzione o un efficientamento della linea a fronte di una previsione di andamento del prezzo dell’energia. Il dato sulla parità salariale non è un requisito di compliance, è uno strumento per la retention dei talenti.
2. Responsabilizzare. Un “flusso informativo definito” non è altro che l’attribuzione di responsabilità e procedure precise e, in genere, è possibile collocare questa responsabilità in capo a chi è quotidianamente più vicino al dato e può trarne indicazioni da trasmettere alla direzione. Il ruolo dell’ESG manager o del controller di sostenibilità non è tanto quello di raccogliere dati, quanto di orchestrare un sistema di responsabilità che renda ciascun dato “imputabile” a una funzione precisa.
3. Semplicità e coerenza. La raccolta e il controllo del dato e/o dei documenti non deve impattare sulla gestione corrente dell’impresa ma esserne parte. Non deve trattarsi di un audit o di un evento “straordinario”, ma entrare a far parte della routine quotidiana.
La terza lezione è culturale: l’allineamento del management. Senza un comitato direzionale che prende in carico rischi e opportunità, e senza incentivi coerenti, la doppia materialità resta retorica.
Proviamo a fare un esercizio concreto considerando la nuova disciplina sull’obbligo di polizza catastrofale: non si tratta nient’altro che della traduzione in (obbligo di) legge dell’applicazione di un principio di buona gestione (o adeguato assetto organizzativo) che prevede di valutare i rischi fisici a cui sono esposti gli asset aziendali e individuare un adeguato presidio al verificarsi dell’eventualità avversa. Nei termini della doppia materialità, l’azienda avrebbe dovuto chiedersi: che impatto posso avere nella causazione o accrescimento di un evento catastrofale? E poi: sotto il profilo patrimoniale, economico e finanziario, che riflessi avrebbe un evento catastrofale sul mio sito?
Pensiamo al cedimento dell’area di sedime ovvero all’esondazione di un canale nei pressi dell’impianto produttivo o del magazzino. Nella prospettiva d’impatto, inside-out, si tratta in questo caso di un ambito fortemente normato: avremo svolto indagini geologiche, prove strutturali, richiesto autorizzazioni, ecc. Certo se la direzione richiede o tollera che dipendenti non qualificati effettuino escavazioni in autonomia oppure se le vie di scorrimento superficiali o gli scarichi non sono liberi o adeguatamente manutenuti non si potrà ritenere insignificante l’impatto dell’attività sociale neanche nei confronti di un evento meteorologico e in un ambito regolamentato. La prospettiva finanziaria, outside-in, è evidente in questo caso: il costo di ripristino o ricostruzione o sostituzione degli asset coinvolti dall’evento.
Questo esempio ci sembra rendere evidente l’importanza dell’ottica della doppia materialità in chiave ESG. Si tratta di un aspetto che avrebbe potuto (o dovuto) essere parte integrante della strategia aziendale stessa: oggetto di valutazione di rilevanza (ad esempio per entità o tra un danno meramente economico o alla salute e sicurezza dei dipendenti) e bilanciamento con altre ipotesi mitigatrici (ad esempio soluzioni fisiche come rinforzi strutturali o nuovi canali di deflusso, magari più efficaci e a lungo termine economiche). Imperium obligat: la valutazione di rilevanza di un evento catastrofale su qualsiasi immobile aziendale e la valutazione di adeguatezza di una polizza assicurativa a fronteggiarlo è stata sottratta alla volontà strategica dell’impresa.
Nell’insieme, queste considerazioni ci portano ad un percorso operativo in quattro movimenti. Primo: definire perimetro e catena del valore estesa, includendo terze parti critiche (ad esempio terzisti, fornitori specializzati, distributori, ecc.). Secondo: identificare temi materiali con evidenze quantitative e qualitative, separando rischio, impatto e dipendenza dall’ambiente e dal capitale sociale. Terzo:
impostare obiettivi misurabili (riduzione emissioni, consumo idrico, sicurezza, qualità occupazionale) con orizzonti temporali differenziati e piani di investimento. Quarto: integrare i risultati nei processi di pianificazione, pricing, sviluppo prodotto e acquisti, in modo che la c.d. matrice di materialità non sia un allegato annuale, ma un dispositivo decisionale quotidiano.
Le applicazioni concrete non mancano. Diverse PMI stanno riprogettando imballaggi per ridurre materie prime vergini e migliorare la riciclabilità, con effetti misurabili su costi, emissioni e relazioni con i clienti retail. Altre sperimentano contratti di fornitura che premiano prestazioni ambientali e sociali, introducendo clausole su tracciabilità, sicurezza e parità salariale. In ambito manifatturiero, la manutenzione predittiva e l’efficienza energetica diventano leve di competitività e di impatto: meno fermi, meno scarti, minore intensità di carbonio per unità prodotta. Sul fronte sociale, il tema della qualità del lavoro — competenze, salute e sicurezza, benessere organizzativo — entra nei comitati rischi e nelle politiche di retention, con un linguaggio che collega produttività, reputazione e territorio.
Un punto centrale è la trasparenza. Comunicare non significa pubblicare un bel grafico, ma informare sulla metodologia e il percorso: cosa è materiale e perché, quali ipotesi si assumono, quali limiti si riconoscono, quali piani d’azione si delineano. La trasparenza alimenta fiducia e dialogo con chi compra, investe, lavora e abita accanto all’impresa. La trasparenza elimina il rischio di greenwashing, perché espone agli occhi di tutti non solo i risultati, ma anche le scelte, le fonti e il processo.
È qui che il motto, spesso attribuito a Patagonia, trova la sua forza: non si tratta più di “sostenibilità”, ma di “gestione degli impatti”. La differenza non è semantica. La sostenibilità evoca talvolta una condizione statica, un equilibrio ideale da conservare; la gestione degli impatti rimanda all’azione, alla responsabilità di intervenire dove gli effetti sono più significativi, positivi o negativi. Governare gli impatti significa misurare, prevenire, ridurre, mitigare, compensare con rigore; ma anche amplificare gli effetti positivi, dal valore condiviso con filiere e comunità alle innovazioni di prodotto che abilitano comportamenti più sostenibili dei clienti finali.
Non tutto, però, può essere misurato con la stessa precisione. La doppia materialità richiede giudizio: saper combinare metriche dure (emissioni, consumi, incidenti, assenteismo) con indicatori narrativi e proxy ragionevoli, evitando l’illusione dell’esattezza quando i dati sono scarsi. Una buona pratica è la triangolazione: confrontare fonti, verificare ordini di grandezza, documentare in modo trasparente le assunzioni. Un’altra è la materialità dinamica: ritornare periodicamente su temi e priorità, perché tecnologie, normative e aspettative sociali evolvono.
La materialità finanziaria, così come inquadrata dalla CSRD, non è un esercizio di compliance: è un catalizzatore che aiuta l’imprenditore a riformulare – e ordinare – le domande chiave sul governo del business. Partendo dall’assunto che rischi e opportunità ESG possono incidere su ricavi, costi, capitale e liquidità, l’analisi impone di collegare fatti operativi e variabili economico-finanziarie, trasformando intuizioni sparse in un sistema decisionale.
Primo effetto: chiarisce le priorità. Mappare i rischi su probabilità e impatto, e tradurli in grandezze economiche (EBITDA, CAPEX, WACC, covenant), costringe a chiedersi: quali fattori spostano davvero il conto economico nei prossimi 12–36 mesi? Dove mettere risorse scarse senza disperderle?
Secondo: accelera la domanda sul “tempo”. L’orizzonte di materialità introduce la dimensione della maturità del rischio: cosa è imminente, cosa è latente ma strutturale? Ne derivano decisioni più ordinate tra azioni tattiche (hedging, assicurazioni, contratti fornitori) e scelte strategiche (ripensamento portafoglio prodotti, upgrade tecnologici, ridisegno supply chain).
Terzo: rende confrontabili le alternative. Di fronte a una diagnosi energetica o a una verifica climatica, l’imprenditore può pesare i trade-off in modo sistematico: quanto vale anticipare una tecnologia meno energivora? Qual è il costo opportunità di non investire ora?
Quarto: allinea governance e incentivi. Se un rischio è materiale, diventa tema di comitato e di KPI manageriali. Le domande tipiche si “standardizzano”: chi è owner del rischio? Quali early warning monitoriamo? Quale soglia fa scattare un piano di mitigazione?
Quinto: apre nuove opportunità. L’esercizio della doppia materialità può far emergere nuove dimensioni della crescita: esistono concorrenti che adottano soluzioni a minore intensità di rischio? C’è un “premio di sostenibilità” nel nostro settore? Ci sono finanziamenti bancari o bandi e agevolazioni che riconoscono un vantaggio economico all’investimento ESG individuato, sulla scorta ad esempio della Tassonomia UE?
Per le medie imprese del Veneto — abituate a competere sull’eccellenza manifatturiera e sulla flessibilità — il governo degli impatti è anche un’occasione di posizionamento. Significa valorizzare la prossimità alle filiere, la relazione con i distretti e con la formazione tecnica. Significa anche parlare il linguaggio degli investitori e dei grandi clienti internazionali, che chiedono trasparenza su rischi e impatti lungo tutta la catena del valore. Un’azienda capace di dimostrare come gestisce i propri impatti negozia meglio, innova prima, attrae competenze.
In fondo la domanda è semplice: che cosa rende la mia impresa utile e legittima nel tempo? La risposta sta nel tenere insieme profittabilità e impatti, non come compromesso, ma come progetto industriale. La doppia materialità, se presa sul serio, offre una bussola per orientarsi nella complessità, evitando sia il minimalismo difensivo sia la bulimia dei dati. È un invito a ridisegnare prodotti, processi e relazioni a partire da ciò che davvero conta per il valore e per la vita delle persone e del pianeta. E a farlo con la concretezza che contraddistingue il tessuto imprenditoriale veneto: poche parole, fatti misurabili, scelte coerenti.