A cura di Maurizio Castro – Direttore Scientifico Executive Master CUOA in Strategia e Crescita Aziendale, Commissario straordinario Speedline

Quando lo scenario competitivo si fa più incerto e turbolento, più oscuro e pericoloso, proprio come quello che si sta dispiegando dinanzi a noi, è il tempo in cui le imprese, specialmente se impegnate in uno scacchiere internazionale, debbono potersi affidare a un modello di governance consapevole, forte e coeso, con un’architettura istituzionale nitida e scandita pur nella pluralità e nella ricchezza dei suoi elementi, frutto di una cultura aziendale insieme radicata e “radicale” nell’autenticità praticata dei suoi valori fondativi. Non a caso, si fa risalire l’attuale espressione inglese governance al termine tardo latino gubernantia, introdotto da Severino Boezio nel bel mezzo di una delle più tragiche e potenti trasmutazioni dell’Occidente, quella del trapasso dall’impero romano ai regni barbarici, non priva di somiglianze evocative con la presente crisi geopolitica e (ancor prima) antropologica.

Eppure, se si scandagliano, appena sotto una superficie spesso lucente ma quasi mai trasparente, le effettive condizioni dell’applicazione dei principi della buona governance nelle aziende italiane, e – per quanto rattristi il dirlo – ancor più in quelle nordestine, ci si imbatte in acque agitate e infide, in correnti contrarie e ingannevoli, in fondali irregolari e frananti, talora persino abitati da predatori inattesi e voraci. A un quarto di secolo dal Libro Verde della Commissione Europea sulla responsabilità sociale e dal Decreto 231 sulla responsabilità amministrativa e a un lustro dall’introduzione dell’obbligo generale di adottare gli “adeguati assetti” disegnati dall’art. 2086 cod. civ., pur nel vorticare di codici etici e di organismi di vigilanza e di procedure di whistleblowing, troppe imprese rimangono abbarbicate a una cultura d’impresa “proprietaria” e non “istituzionale”, e si affannano a fingersi adempienti alla nouvelle vague normativa schermandosi dietro armamentari burocratici inerti: un atteggiamento che mi è più volte occorso di definire “nicodemismo”.

Il problema purtroppo risiede nel fatto che oggi non basta un simulacro di governance per sopravvivere in un’arena mortale: serve invece una governance profondamente vissuta, convintamente organizzata, militantemente impegnata nel conseguimento dei suoi obiettivi strategici e dunque nell’inveramento della sua più profonda identità assiologica. Una governance distintiva e propulsiva è in quest’epoca non meno essenziale per conferire un orizzonte all’agire d’impresa di quanto non lo sia un prodotto distintivo e propulsivo. E giungo a sostenere con fermezza che è la governance a modellare e modulare la risorsa umana, su un versante, e la tecnologia, sull’altro.

Non va però in alcun modo sottovalutata la gravosità, anche emotiva, di una siffatta conversione (una vera e propria metànoia) per il ceto imprenditoriale, non sempre congruamente sostenuto in questo processo né dal ceto manageriale (che pur ne sarebbe il primo, naturale beneficiario), né dal ceto politico (a sua volta inabissato in una condizione di drammatica ipossia elaborativa), né dalle rappresentanze economico-sociali (datoriali o sindacali che siano), né dal sistema della consulenza e della finanza.

La necessaria adozione da parte delle tipiche imprese di taglia media del Nord-Est, per convergenti e inesorabili ragioni sia di natura normativa (è inaccettabile assistere ancora alla divaricazione schizofrenica di compagnie prestigiose e pompose che esaltano le loro eccellenza ESG ma finiscono in amministrazione giudiziaria vedendosi applicate le misure preventive del codice antimafia) sia di natura competitiva (il successo si accompagna vieppiù alla grande dimensione raggiunta anche per linee esterne, all’integrazione dei cicli di progettazione e di produzione, all’insourcing e al backshoring), di nuovi e più articolati modelli di governance, tesi a garantire l’adeguatezza effettiva degli assetti organizzativi e amministrativi, equivale d’altronde al passaggio dalla “monarchia assoluta” (come fu illustrata e teorizzata da Jean Bodin o da Thomas Hobbes) alla “monarchia costituzionale” (come lo fu da John Locke o da Charles de Montesquieu o da Benjamin Constant). L’imprenditore nordestino è stato storicamente detentore di un potere unico e indivisibile, assoluto e irrevocabile: deve ora riconoscere come operino legittimamente e autonomamente in azienda altri poteri, a garanzia di interessi non contrapposti al suo, ma diversi dal suo e da integrarsi col suo con pari dignità. Si tratta di affrontare un vero e proprio “Grande Balzo in Avanti” (Great Leap Forward), una sorta di “mutazione antropologica dell’impresa” che da proprietà familiare si fa insieme istituzione e comunità, fino a connotarsi come “bene comune”, e che si organizza secondo modelli di governo e di gestione orientati progressivamente e propulsivamente alla pluralità, alla complessità, alla responsabilità, alla cooperazione, alla partecipazione.

Non dobbiamo allora nasconderci dietro alla troppo facile retorica delle magnifiche sorti e progressive, la quale tenta di raffigurare come armonia arcadica ciò che costituisce invece una condizione tanto più meritevole di regolazione quanto più intrinsecamente conflittuale (o almeno agonistica). Siamo infatti di fronte a una vera e propria traslazione (nella percezione dell’imprenditore, perdita) di potere, di rilevanza sistemica e di portata storica, ove la detenzione del potere stesso si sposta parzialmente ma significativamente dal lato dell’imprenditore verso nuovi soggetti, spesso di natura collegiale, con funzioni penetranti (nella percezione dell’imprenditore, intrusivi) di controllo attivo (dove cioè dal monitoraggio discende una potestà correttiva). Si pensi, sul versante di matrice “interna” della governance (che potremmo definire “esplicita”), a quanto sia cambiato, dopo la riforma dell’art. 2086 cod. civ. introdotta dal Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (gli “adeguati assetti”, per intenderci), sia l’atteggiamento dei Collegi sindacali, incalzati da nuove e robuste responsabilità, sia quello dei soci di minoranza, armati ora di potenti macchine d’assedio come l’art. 2409 cod. civ.; o si pensi alla influenza organizzativa che può essere esercitata da un Organismo di Vigilanza il quale, traendo alimento dal processo di progressiva estensione ed espansione dei reati presupposto nelle novelle al D. Lgs. 231/2001, conduca incisivamente le proprie verifiche di congruità in aree come quella della compiuta compliance fiscale, o quella della salute e della sicurezza dei lavoratori e della salvaguardia dell’ambiente, o quella dei rapporti di collusività o di eccessiva continguità con i fornitori; o si pensi agli effetti destabilizzanti dell’intervento di un Comitato Etico sollecitato da una segnalazione di whistleblowing nell’accertamento delle reali prassi aziendali in termini di rispetto dei principi di parità di genere nelle assunzioni, nelle carriere e nelle remunerazioni o di prevenzione delle condotte moleste o persecutorie. Ovvero, sul versante di matrice “esterna” della governance (che potremmo definire “implicita”), si pensi all’impatto sui modelli organizzativi cagionato dai monitoraggi disposti da importanti clienti impegnati nell’accertamento dei comportamenti tenuti in materia di non inquinamento, di non discriminazione, di non sfruttamento, ecc. nella prospettiva di redigere una appropriata “dichiarazione non finanziaria” in applicazione del D. Lgs. 254/2016; o dai monitoraggi disposti prima della concessione di un mutuo dagli istituti di credito sul grado di affidabilità discendente dall’applicazione dei 45 indicatori ESG suggeriti dal Tavolo per la Finanza Sostenibile del MEF; o dai monitoraggi disposti dalle autorità e dai soggetti istituzionali in una delle crescenti occasioni di necessario confronto con la mano pubblica, per una procedura di verifica da parte dell’Antitrust o di esercizio da parte del Governo dei poteri speciali (golden power) in caso di acquisizione, o per l’accesso a un contratto di sviluppo con Invitalia, o per l’apertura di un tavolo di crisi al MIMiT o per l’accesso alla composizione negoziata ex art. 12 segg. CCII, ecc.. Né si trascurino gli effetti, potenzialmente ad alta densità socio-organizzativa, che deriveranno dalla progressiva applicazione di esperienze di partecipazione dei lavoratori (direttamente, secondo il modello tedesco del “doppio canale” di rappresentanza, ovvero attraverso le loro organizzazioni e rappresentanze sindacali) quali quelle oggetto della recente legge-quadro 76/2025 di attuazione dell’art. 46 Cost..

E, naturalmente, non è sufficiente invocare, con un filo di ipocrisia, la “leale collaborazione” degli imprenditori al ridimensionamento del loro potere, senza pretendere dagli altri soggetti cui una porzione di quello stesso potere viene attribuita nella nuova “macchina” istituzionale dell’azienda un non meno intenso sforzo di adeguamento “reale” (e dunque culturale prima ancora che gestionale) al riformato apparato di funzionamento. Se venisse mantenuto, da parte del management e della consulenza qualificata che esprime i sindaci, i revisori, i componenti degli organi e degli organismi funzionali alla compliance, i membri dei comitati, delle commissioni e delle strutture di supporto, l’atteggiamento che per troppi decenni ha connotato (sia pur per ragioni comprensibilissime) la loro “collaborazione”, idest la “sudditanza” all’imprenditore-sovrano, sarebbe un vero disastro, che affogherebbe l’economia privata in un regime di costante falsificazione etica, intorbidamento burocratico e spaesamento strategico. Proprio il contrario di quanto si vorrebbe e di quanto è implacabilmente necessario nel tempo della “permacrisi”. È fondamentale, in una monarchia

finalmente “costituzionale”, che le articolazioni del nuovo potere siano fino in fondo consapevoli che il presupposto della cooperazione è l’autonomia di chi vi concorra e che una autentica dialettica istituzionale si può svolgere solo nella nitida distinzione dei ruoli, delle loro prerogative e della loro “missione” nella complessa comunità aziendale.

È indispensabile allora avviare – con la partecipazione delle grandi associazioni della rappresentanza sociale e dei loro centri studi, degli ordini professionali e delle loro fondazioni di ricerca, degli organi costituzionali competenti a cominciare dal CNEL, dell’accademia e delle business school, dei soggetti che animano a diverso titolo l’agenda del “discorso pubblico” sui temi dell’organizzazione e della regolazione d’impresa come Bankitalia, Assonime e Consob, degli stessi partiti e movimenti politici e dei loro think tank e cominciando magari dalla celebrazione degli Stati Generali per una nuova governance delle imprese – una grande “paideia” imprenditoriale e manageriale, ma anche istituzionale e civica, per rendere “autentica” tale mutazione, per conferirle strumenti normativi e operativi appropriati, e dunque per renderla coerente ed efficace nella sua applicazione dei principi dichiarati, pena lo smarrimento di una formidabile (e forse irripetibile) occasione di accelerazione competitiva in uno scenario strutturalmente turbolento.